L’accoglimento della domanda di condanna al risarcimento del danno ex art. 96, comma 1, cod.proc.civ.presuppone l’accertamento sia dell’elemento soggettivo (mala fede o colpa grave) sia dell’elemento oggettivo (entità del danno sofferto). Il primo presupposto, per concretizzarsi nella conoscenza della infondatezza domanda e delle tesi sostenute ovvero nel difetto della normale diligenza per l’acquisizione di detta conoscenza, è ravvisabile in tutti quei casi in cui venga proposto – contrariamente ad un costante, consolidato e mai smentito indirizzo giurisprudenziale – ricorso per cassazione avverso provvedimenti di natura ordinatoria, quali quelli emessi ex art. 273 e 274 c.p.c.. Il secondo presupposto richiede, invece, l’esistenza di un danno e la prova da parte dell’istante sia dell’ “an” che del “quantum debeatur”, il che non osta a che l’interessato possa dedurre, a sostegno della sua domanda, condotte processuali dilatorie o defatigatorie della controparte, potendosi desumere il danno subito da nozioni di comune esperienza anche alla stregua del principio, ora costituzionalizzato, della ragionevole durata del processo (art. 111, comma 2, Cost.) e della legge n. 89 del 2001 (c.d. legge Pinto), secondo cui, nella normalità dei casi e secondo l’ “id quod plerumque accidit”, ingiustificate condotte processuali, oltre a danni patrimoniali (quali quelli di essere costretti a contrastare una ingiustificata iniziativa dell’avversario sovente in una sede diversa da quella voluta dal legislatore e per di più non compensata sul piano strettamente economico dal rimborso delle spese ed onorari liquidabili secondo tariffe che non concernono il rapporto tra parte e cliente), causano “ex se” anche danni di natura psicologica, che per non essere agevolmente quantificabili, vanno liquidati equitativamente sulla base degli elementi in concreto desumibili dagli atti di causa (Dichiara inammissibile, Trib. Roma, 19 Febbraio 2004)
FONTI
Mass. Giur. It., 2007
CED Cassazione, 2007